venerdì 4 maggio 2012

ENTRY 0027
GLI UOMINI DI IERI 2

Il padre di mia madre si chiamava Virginio.
Aveva i capelli rossicci, era magro e gli occhi stretti sembravano ridere di qualcosa anche quando il resto del
viso era serio.
Virginio era venuto da un Veneto dove ancora si moriva di fame , pedalando da un paese di una valle tra Bassano e Asiago sulla sua unica e più preziosa proprietà: la sua bicicletta da corsa.
Una volta arrivato a Torino, una città che prometteva lavoro a tutti gli emigrati d'Italia, aveva trovato un posto
alla FIAt e anche l'assegnazione di un alloggio alle case operaie di Viale Buridani, nel sobborgo di Venaria che
ospitava centinaia di manovali arrivati da poco, soprattutto dal Triveneto e dalla Sicilia.
Poi aveva venduto la sua amata bicicletta, e col ricavato aveva acquistato un biglietto di andata e ritorno a
casa per sè, e di sola andata per la sua sposa e per suo figlio.
Due altre figlie sarebbero nate lì, nel ghetto proletario dove i tubi della stufa correvano lungo i muri di casa
e il pane del tempo di guerra era scuro e andava mangiato prima possibile o sarebbe divenuto così duro da
essere immangiabile.
Virginio avrebbe perso molto dell'infanzia delle bambine, perchè richiamato alle armi nei suoi Alpini sarebbe
finito al fronte in Venezia Giulia, e di lì in un campo di prigionia in Jugoslavia, dal quale sarebbe tornato molti
mesi dopo la fine della guerra. Dicono che la moglie stentasse a riconoscerlo: ma era lui, e con il tempo anche
i suoi occhi stretti ricominciarono a sorridere.
Con la pensione i due pensarono di trasferirsi prima nel biellese, dove avevano un genero e i suoi parenti, ma
il clima umido delle brughiere dove ancora sferragliavano le antiche filande li mise in fuga verso la riviere ligure,
dove in quegli anni - correvano i primi Settanta - ci si poteva ancora permettere ancora permettere di comprare
un piccolo appartamento nei paesi di Ponente.
Lì Virginio visse per poco più di quindici anni, parlando di politica al bar con gli anziani del posto, andando a
ballare ogni sabato e tornando sudato e allegro fradicio, e percorrendo tutte le strade dell'entroterra con la sua bicicletta grigia.
Fino a che un giorno di Ottobre venne travolto da un'auto di grossa cilindrata che sfrecciava in contromano
su una strada deserta lungo il fiume locale, guidata da un meccanico che la stava provando prima di conse-
gnarla a un cliente.
Morì un mese dopo in un grande ospedale dove per circa due settimane lo curarono senza nemmeno sapere
o informarsi del fatto che fosse diabetico.
Lasciava di sè tante fotografie in bianco e nero, un cappello da alpino e una storia che doveva essere raccontata.

Janisch

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