martedì 2 aprile 2013






Questo è il testo di un articolo inviato a una rivista online tedesca sulla storia dell'ebraismo , in occasione (e in realtà, in ritardo) della Giornata della  Memoria.
Ogni volta che credete che la discriminazione, l'intolleranza e l'emarginazione siano Storia , pensate per un
attimo ad Arpad Weisz.
Grazie.



W E I S Z   A R P A D
L'Uomo ai Bordi del Campo
Questa è la storia di un libro su un uomo, e quindi è la storia di quell'uomo.
Il nome dell'uomo è stato Arpad, ma lui lo scriveva sempre dopo il suo cognome, che era Weisz, e così lo chiameremo noi: Weisz.
Tendo a pensare che chi premette il suo cognome al nome sia persona ordinata e rispettosa delle regole, perchè così ci esortavano a fare a scuola fin dai primi giorni delle Elementari. I nomi si ripetono molto più dei cognomi, quindi un cognome identifica subito il suo portatore con rischi minori di omonimia.
Immagino Weisz fare  ogni giorno l'appello dei suoi ragazzi per il cogno-
me, negli spogliatoi adiacenti al campo di calcio. Perchè questo faceva
Weisz per vivere: insegnava a giovani , a volte poco sotto i vent'anni e a
volte poco sopra i trenta, a trattare con i piedi quella palla di cuoio allora
ruvido che da oltre un secolo fa sognare ed entusiasmare le folle di tutto
il mondo, in quello che è il gioco più seguito e amato di questo strano
mondo. Era un allenatore di calcio.
Il libro che racconta della sua vita dice poco della sua adolescenza in
terra d'Ungheria - cui qui rendo omaggio perchè origine della famiglia di
mia  madre - e che trascorreva nelle squadre di Torekves e Brno,  per
poi trasferirsi in Italia in forza all'Alessandria e poi all'Inter, dove un in-
fortunio metteva precocemente fine alla sua carriera.
Ma l'amore per il calcio, anzi il Calcio come scriviamo noi moderni, lo
fermava a mezza strada per gli spogliatoi:  là sul bordo del campo, dove
avrebbe passato tutto il resto della sua vita. O tutto il resto meno gli ulti-
mi mesi, quelli della trasferta senza ritorno nel campo più ignobile inau-
gurato dall'Uomo, il cui nome resta il sinonimo di ciò che succede quanto
viene violata ogni regola della morale umana:  Auschwitz.
Weisz ha trascorso i suoi giorni come un uomo comune, e di lui la Storia
 si è quasi dimenticata: noi oggi siamo qui a darle un aiuto, io e l'autore
del libro di cui sto parlando, per ricordarle che quest'uomo qualunque ha
lasciato qualcosa dietro a sè. Qualcosa di importante: nei gesti, nei fatti,
nelle realtà che portano il suo segno.
Weisz ha portato in Italia il calcio moderno: senza inventarlo, ma inno-
vando rispetto alla dottrina del maestro inglese, il grande Chapman, e
così facendo ha cambiato le cose per sempre. Ha dato un  assetto tattico
alla difesa, ha introdotto a centrocampo l'idea di una regìa, e ha fondato
il ruolo cardinale dell'ala. Il nostro calcio era qualcosa prima e qualcos'al-
tro dopo di lui. E' stato il primo a scendere in campo coi suoi giocatori,
un maestro in maglietta e calzoni corti a mostrare con i piedi e con il fia-
to i suoi schemi sull'erba, mentre i suoi colleghi continuavano a seguire
le loro squadre dall'esterno, in giacca e scarpe da città. Ha posto le basi
dell'assistenza sanitaria ai giocatori, portando un medico e un massag-
giatore di ruolo al loro fianco, richiedendo un'infermeria sociale.
Ha scritto di calcio sul più indipendente di tutti i periodici sportivi italiani,
quel CALCIO ILLUSTRATO che solo resisterà fino all'ultimo alla retorica
fascista e al suo nuovo e importato culto della razza ariana.
Sì, perchè Weisz ha esercitato la sua professione e diffuso le sue idee
nel pieno del Ventennio, salendo prima agli onori e agli ardori delle cro-
nache dell'epoca, per poi uscirne in fretta dalla porta posteriore, in  un
 giorno grigio di Gennaio, scacciato con tutta la sua famiglia da un editto
razziale voluto e firmato da Mussolini in persona.
Weisz Arpad, allenatore tre volte campione d'Italia , con l'Inter prima e
due volte con un Bologna da leggenda poi. Campione d'Europa al Torneo
dell' Esposizione di Parigi nel 1936. Nessuno aveva portato una squadra
italiana al trono continentale prima di lui, soprattutto battendo i maestri
e inventori del calcio, quegli Inglesi così superiori da disertare i tornei
delle rappresentative nazionali. Bologna-Chelsea, 4-1. Un trionfo per il
solo pensatore del football che avesse interrotto gli anni di dominio della
Juventus degli Agnelli, per cinque volte consecutive vincitrice del titolo.
Nel 1930, all'apice degli anni di gloria milanese, insieme al di allora diret-
tore sportivo dell'Ambrosiana Inter Aldo Molinari, ha scritto e pubblicato
con l'Editore Corticelli il GIUOCO DEL CALCIO, un manuale fondamentale
in cui si espongono regole, ruoli, elementi tecnico-tattici graficamente il-
lustrati e vengono introdotte norme e metodi di allenamento delle squa-
dre. Il volume è onorato dalla prefazione di Vittorio Pozzo, l'artefice dei
due Mondiali vinti dalla Nazionale nel '34 e nel '38, considerato il nume
del calcio italiano di sempre.
Ma non c'è metodo, non c'è disciplina, non c'è merito umano che possa
avere la meglio sull'umana stupidità, soprattutto quando si erge a moto-
re dei processi storici. Le leggi razziali del 1938 calano come un'ascia sul-
la società civile, intese depurare i ranghi professionali e gli uffici pubblici
dalla presenza ebraica in  ossequio alla politica di pulizia etnica intrapre-
sa dall'alleato tedesco. Il regime fascista ha ormai svoltato in  modo irre-
vocabile verso la direttrice imperialista, e lo sforzo di espansione colo-
niale necessità dell'appoggio e della sponda di Berlino: il razzismo istitu-
zionale è un corpo estraneo in quella mescolanza etnica e culturale che è
il contesto italico, ma la ragione di Stato non conosce altro criterio che
se stessa.  L'editto del 7 Settembre  l'espulsione entro sei mesi
per tutti gli ebrei residenti dal 1933 in poi.
I tre titoli conquistati con Inter e Bologna, la vittoria europea e gli onori
ricevuti dal Duce in persona, la stima e l'affetto dell'intera capitale emi-
liana non sono valsi a frapporsi tra la legge-scure del regime e l'uomo
solo ai bordi del campo: anzi, proprio i suoi successi generano imbarazzo
al principio di riduzione della presenza ebraica nei ruoli di pubblico inte-
resse, mostrando come un umile ebreo ungherese sia riuscito dove nes-
sun collega latino era giunto. Per questo Weisz non fu solo allontanato,
ma addirittura rimosso dalle cronache e dalla memoria collettiva - quasi
il Mosè dei Dieci Comandamenti, cancellato da ogni documento ufficiale
per volere del Faraone - ; e tale rimozione è rimasta nei decenni , discre-
ta e tenace come certi articoli del Codice Giuridico Rocco. Questo libro,
e il presente articolo che ne trae spunto, sono intesi proprio interrompe-
re il silenzio che perpetua un'ingiustizia.
Weisz Arpad e tutta la sua famiglia in quel silenzio sono scivolati in quel
Gennaio 1939, passando per Parigi e diretti verso l'Olanda e l'ignoto ol-
tre di essa. La capitale francese, forse più attenta ai movimenti che pre-
paravano la tempesta che presto l'avrebbe travolta (l'1 Settembre l'eser-
cito nazista avrebbe attraversato il confine della Polonia) che non alle
passate glorie dell'uomo che solo due anni prima aveva alzato sui suoi
campi il trofeo europeo, a Weisz non doveva offrire slcun lavoro.
Fu la cittadina olandese di Dordrecht, la cui società ristagnava sul fondo
classifica di una prima divisione ancora dilettantesca in cui ogni giocato-
re aveva un secondo lavoro, a proporgli un incarico annuale. Là , lontano
dalle cronache, su campi di periferia spesso persino privi di gradinate ,
l'autore de IL GIOCO DEL CALCIO compì il suo capolavoro oscuro e di-
menticato: portare un pugno di volenterosi ragazzi privi di preparazione
tattica ed atletica al quinto posto del torneo nazionale, prendendosi l'
ardire di giocare da pari con le società professionali e blasonate come il
Feyenoord, che riuscì persino a superare 2-1 sul campo.
Nessuno oltre i confini della contea avrebbe celebrato quelle vittorie - in
Olanda all'epoca non esisteva neppure un quotidiano sportivo - ma oggi
non possiamo che riconoscervi la mano di un grande maestro del calcio.
Purtroppo, nessun arbitro fu lì a fischiare il netto fuorigioco tedesco la
notte del 10 Maggio 1940, quando il campo olandese fu invaso e in due
soli giorni annesso alla spietata nuova dirigenza formata dagli austriaci
Rauter e Seyss-Inquart. L'incarico, semplice e agghiacciante, era di dre-
nare le risorse del Paese al massimo livello possibile per sostenere l'ulte-
riore sforzo bellico in direzione della Francia e nel farlo di attuare le di-
rettive di pulizia etnica dalle quali Weisz e la sua famiglia avevano credu-
to di fuggire lasciando l'Italia : ma senza le lentezze e le inefficienze( che
spesso mascherarono la svogliatezza e un  inizio di dissenso con cui le
nostre autorità locali interpretavano le leggi razziali. Repressione ed eli-
minazione della presenza ebraica in Olanda seguirono una tabella rapida
e precisa , che in poco più di un anno e mezzo passò dall'interdizione dai
pubblici uffici alla deportazione vera e propria.
Nel primo periodo Weisz, coinvolto dal provvedimento che impediva all'
"elemento giudeo" di esercitare un qualsiasi lavoro di pubblico rilievo -
ivi compreso il settore sportivo - si adattò a seguire la squadra dalle re-
trovie, confuso in abiti borghesi tra il pubblico ai bordi del campo, e co-
municando le direttive tecniche, schemi e sostituzioni passando di mano
dei biglietti destinati al collaboratore che risultava ufficialmente respon-
sabile della squadra. Possiamo solo immaginare l'umiliazione e la frustra-
zione di chi, come lui, aveva fatto del suo mischiarsi ai giocatori il suo
metodo e il suo segno distintivo; ma anche questo sarebbe presto passa-
to in secondo piano, di fronte all'interruzione definitiva della partita.
Già dal Maggio del 1942 gli Ebrei furono obbligati a indossare la famige-
rata stella gialla di Davide che ne permetteva il riconoscimento a vista:
fu loro proibito l'uso dei mezzi pubblici e del telefono, l'accesso a qual-
siasi casa non giudea, e dovettero subire un rigido orario di uscita diurna
e serale.
Il 22 Giugno la macchina amministrativa nazista si mise in moto secondo
un programma che prevedeva la deportazione di 40.000 ebrei nei campi
di lavoro tedeschi - così venivano ufficialmente chiamati. I primi 4000 sa-
lirono sui treni per la Germania in data 15 Luglio, presentandosi dietro
la minaccia delle autorità di fucilare 700 persone di razza ebraica preven-
tivamente rastrellate e tenute in ostaggio nelle carceri.
Alle prime ore del mattino del 2 Agosto 1942 l'intera famiglia Weisz ven-
ne arrestata e trasferita al campo di smistamento di Westerbord, e di lì
alla destinazione finale: Auschwitz.
Ilona Weisz e i due figli Roberto e Clara, ancora bambini, appena arrivati
vennero immediatamente indirizzati agli stabilimenti da cui nessuno mai
tornava, e che nascondevano l'ignobile, allucinante realtà delle camere a
gas. Arpad non li rivide mai più.
Solo, sostenuto da un fisico atletico e abituato alla fatica, quest'uomo
introverso e dignitoso dal carattere paziente ma forte sopravvisse agli
stenti , al lavoro e alle percosse in condizioni che non potremmo nean-
che iniziare a immaginare. Cedette, alla fine, al mattino dell'ultimo gior-
no di Gennaio del 1944, poco dopo il quinto anniversario di quell'altro
mattino in cui con la sua famiglia aveva lasciato Bologna e l'Italia che gli
aveva voltato le spalle.
Fu gettato in una fossa comune con le altre vittime della giornata.
Weisz Arpad era una di quelle persone che scrivono il loro cognome pri-
ma del nome, come un tempo ci veniva insegnato a scuola: la cui tempra
è formata al rispetto degli altri e delle regole del vivere civile, che seguo-
no la loro indole e la loro strada con discrezione ma determinati, compo-
sti e fiduciosi in una società che a volte li solleva, a volte li abbatte, a vol-
te li priva di tutto - ma non ha mai, ripeto mai, il diritto di dimenticarli.
Questo breve articolo, che si scusa di non essere uno studio critico nè
una recensione, è un contributo al ripristino della memoria storica - che
oggi quanto mai ha bisogno di tutto l'aiuto possibile -   e segue un libro
bello e appassionato di Matteo Marani dal titolo : "Dallo Scudetto ad
Auschwitz".  Leggerlo e ricordarselo è un atto di giustizia verso un uomo
che ha amato il calcio al punto da rinnovarlo, e l'ha amato al punto di
portarlo a noi cambiato in meglio, per non riceverne mai abbastanza in
cambio, come capita all'amore mal corrisposto.
Leggerlo e ricordarlo significherà fare in modo che all'appello della Storia
torni a rispondere un nome e cognome che non avrebbe mai dovuto es-
sere dimenticato.
Arpad Weisz.
Presente.

Torino,
Italia del Nord-Ovest
Dario Janese




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